un lungo racconto…

Racconto psicologico ambientato nel Medioevo da leggere, scaricare, stampare free

L  E    O  S  S  A

Racconto di A.R.D.

copyright Feb/2011 – tutti i diritti riservati – è consentito
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per lettura personale: escluso ogni altro uso

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Un condottiero del XII secolo: il suo cammino interiore…
fino alle Ossa.

Avvertenza. Il racconto è intero: qui in post ne pubblico solo l’inizio essendo
racconto molto lungo, che d’altra parte non si presta alla lettura on line. Se vuoi comunque
leggerlo a video senza scaricarlo: clic su download e scegli Apri invece di Salva.

 

     “Nulla è più desolante che percorrere gelide terre senza alcuna voglia di giungere alla meta…”
     Questo pensava e questo si ripeteva il nuovo signore del Feudo delle Ossa, mentre vi si recava a prenderne possesso, col suo breve seguito di pochissimi armati e di un carro trainato dai buoi. E lo pensava e se lo ripeteva masticando triste quelle parole fra i denti, nel procedere lento del lungo cammino.
     “Ho condotto l’esercito alla vittoria, ho spianato entrambe le città, non ho lasciato nessuno che possa raccontare d’esser rimasto vivo… e questa la ricompensa…! Le Ossa.”
     A lui, ad Arimanno vittorioso, quel magro feudo…! Una breve striscia dimenticata fra le montagne: cumuli rocciosi da una parte, cumuli pietrosi dall’altra, e nel mezzo più sassi che grani di terra.
     Dannato Anastasio che proprio ora doveva morire…! Senza eredi e lasciando disponibile quel beneficio.
     “Nulla è più desolante che percorrere gelide terre senza alcuna voglia di giungere alla meta…”
     – Mi apparite stanco, signore… Volete che si anticipi la sosta?
     – No, Cuniberto… Proseguiamo per altro tratto ancora. Sono stanco, è vero… e sono afflitto da questo gelo. Me ne sento opprimere più nel petto che nelle carni.
     – Eh…! Nulla è più desolante che percorrere gelide terre.
     Arimanno si volse a scrutarlo:
     – Senza alcuna voglia di…?
     – Come dite, signore?
     – Niente… –  sfilò un guanto e si massaggiò il collo.
     Nonostante la grande stanchezza e gli anni, la sua persona forte e asciutta si teneva diritta sul destriero.
     “E ho sonno… Maledetti sogni che non mi lasciano dormire…! Di notte i sogni a tenermi desto, di giorno il sonno a tenermi stanco. Come vorrei che i sogni venissero a me di giorno…! Li governerei. Con gli occhi aperti i sogni non…”
     – A volte… –  cominciò a dire Cuniberto  – A volte ripenso a quando nella gioventù facevo sogni ad occhi aperti. E mi…
     Arimanno ebbe uno scatto che indusse il cavallo a fermarsi. Cuniberto fermò il proprio:
     – Che avviene?
     – Niente… Sono davvero stanco. Anticipiamo la sosta.
     – Voi dormite troppo poco. La notte vi alzate… camminate invece di riposare. E il giorno…
     – Taci, Cuniberto. Non dirmi per la terza volta i miei pensieri.
     Cuniberto lo guardò senza capire. Ma tacque.

Come specificato in Avvertenza, per leggere a video l’intero racconto
senza scaricarlo: clic su download e poi Apri invece di Salva.

Personaggi… creature incredibili…!

racconti di pioggiamarea, da leggere, da scaricare free, da stampare
storie medievali e contemporanee

Il segreto del pittore di anime.

 racconto  di  A.R.D.

 copyright 05/’10 – pubblicato in rete 08/’10 in un sito di racconti –
è consentito scaricare e stampare free solo per lettura personale: escluso ogni altro uso –

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(il racconto è intero: se appare il link “continua” cliccarvi per leggere tutto) 

    Quegli occhi… vedono! E… respira…
     – Di più. Pensa.
     – Una pittura… come dire? Da principiante. Eppure le figure di questo artista hanno qualcosa di sovrannaturale. Sono vive, ecco.
     – Anche i critici, pur stracciandolo sotto il profilo pittorico, ne hanno riconosciuto l’eccezionalità. Questi quadri sono meraviglie…!
     La sala modesta, per modeste esposizioni, imprevedutamente accoglieva in quei giorni un pubblico esigente e raffinato, richiamato dalla stupefatta eco destata dalle opere in mostra; e per la prima volta il suo pavimento ordinario era stato calpestato dalle elette suole dei critici d’arte.
     Quel pittore sconosciuto, spuntato come un fungo, che non era nemmeno un pittore, che in tutta la sua vita aveva dipinto sì e no una quindicina di paesaggi banalissimi per amici e parenti, s’era messo in vecchiaia a dipingere figure umane: non ritratti, personaggi di fantasia; in costumi storici pure questi di fantasia, impossibili da collocare nel tempo, fra gli ingenui anacronismi.
     E quelle figure erano vive. Se ne percepiva l’interiorità, e la passione, e il carattere, il pensiero, i ricordi… l’anima!

     Un simile risultato nessuno riusciva a spiegarselo. Le membra dalle proporzioni bizzarre, i rilievi anatomici del tutto stravaganti, i volti privi di accorgimenti d’espressione, le ombre dalle traiettorie improbabili, i punti di luce distribuiti a piacimento, le prospettive lunatiche, la disposizione degli spazi sbilanciata, i colori dati così come usciti dai tubetti, il panneggio elementare, le carnagioni come le avrebbe rese un bambino… Eppure, su quelle tele, in quelle cornici, c’erano persone.
     E pareva, guardandole, che narrassero le proprie storie: nessuno avrebbe saputo poi riferire quali storie, ma ognuno dentro di sé era certo di averle sentite e ne conservava l’impressione.
     – Come ottiene tali effetti nella più totale assenza di strategie pittoriche?
     – Davvero non lo so. E’ un mistero. E darei non so cosa per… Che accade? Perché applaudono? Oh ma… deve essere giunto il pittore…
     – Eccolo, è lui. Guarda! Ci sono telecamere… giornalisti…
     – Povero vecchio… sembra disorientato… smarrito…
     La gente gli si stringe attorno, e le domande si sovrappongono, ma non sono tutte che un’unica domanda:
     – Maestro… ma come fa?
     Il pittore è frastornato, comunque sorride di un sorriso gentile. Nel silenzio sopravvenuto, denso dell’attesa della sua risposta, risponde a voce bassa:
     – Quando dipingo i miei personaggi… io ci metto il cuore… e ci metto l’anima. Tutto qui.
     – E si sente, maestro. Davvero lei dipinge col cuore e con l’anima!
     – Non intendevo questo… Volevo dire… Non importa.
     Nella folla c’è un giovane che se ne sta muto e livido; e rigido… tanto è forte la vibrazione che gli percorre il corpo. Il pittore ne è richiamato dagli occhi come di pazzo: occhi nei quali vede la volontà, anzi il bisogno, di uccidere.
     E nei quali vede di essere l’oggetto di quel tumulto omicida.
     Gli si accosta:
     – Vieni a trovarmi… anche stasera stessa…
     Si volge al proprio accompagnatore a dire piano:
     – Scrivigli l’indirizzo…

 

 

    Nonno, c’è un’altra visita…
     – Basta, piccola… basta… sono stanco… Voglio andare a coricarmi.
     – Ha detto che tu gli hai detto di venire…
     – Ah… ho capito. Di’ alla mamma di farlo entrare.
     Si siede in una delle poltroncine di vimini dell’ampio soggiorno:
     – Entra… chiudi la porta… vieni… siedi… siedi qui vicino a me. Son contento che tu sia venuto… Raccontami qualcosa di te… chi sei…
     Il giovane tiene le labbra serrate strettamente, così frenando l’orda di parole che spinge da dentro.
     – Che ti accade ragazzo? Cosa ti tormenta? Parla…
     Gli occhi del giovane percorrono febbrili la stanza: ripudiano la busta del supermercato che ancora avvolge una tela nuova, sul cavalletto; si spostano al tavolino a lato, dove contano cinque pennelli in un vasetto e patiscono sul kit dei colori ad olio per dilettanti; ripiegano tristi a fissarsi sulla lattina dell’acquaragia:
     – Io… sto male… sto male…
     Il pittore gli guarda le mani e, pur senza toccarle, sente che sono fredde e madide.
     L’altro, come avesse avvertito quella percezione, le stringe a pugno e ficca i pugni nelle tasche della giacchetta dalle maniche ormai corte ai polsi; lo sguardo sempre fisso:
     – Io vi odio… e vorrei uccidervi. Mi vergogno di me… sto morendo di invidia.
     Ritrae gli occhi dall’acquaragia, li punta in faccia al pittore:
     – Vi odio… e soffro. Non sono nel giusto, lo so, ma non capisco perché voi abbiate ricevuto tanto riconoscimento… tutto questo successo… Voi non siete pittore. E avete venduto tutti i vostri quadri… i vostri quadri… Che sono brutti! Sbagliati! Malfatti! Ah lo so, lo so, sono sublimi, me ne sono accorto… Voi ci mettete il cuore e l’anima… E io allora? Io no? Anch’io ci metto il cuore e l’anima! Ho passato notti intere a dipingere preso da passione… Ho sopportato la stanchezza, la fame, tutto… Ho dipinto centinaia di tele! Che non ho preso al supermercato. E ho studiato…! E non mi sono mai risparmiato… E i miei quadri sono perfetti! Capite? Perfetti! Ma le mie figure sono piatte! Piatte! Piatte!
     Si alza e cammina concitato per la stanza; e le scarpe sciupate, dai tacchi consumati, nulla tolgono all’impeto dei suoi passi esuberanti:
     – E tacciono! Perché? Perché tacciono? Eppure anch’io dipingo col cuore e con l’anima! Anch’io! Ma loro non hanno anima! Non l’hanno! Perché? E devo vedere che l’hanno invece le figure sbilenche e sciancate che voi accozzate coi vostri orrendi colori pasticciati sulle vostre stuoie…! Come vorrei uccidervi…! Sono malvagio e non lo sapevo… Non sapevo di essere capace di tanta rabbia… di invidia… di odio… Io non mi conoscevo… Vi odio anche per questo… perché mi avete fatto diventare cattivo! E penso che… voi siete un vecchio ormai…! A che vi serve la fama? E avevate già tutto! Casa… famiglia… Io non ho niente! Niente! E sono giovane… E sono pittore davvero… non come voi che non lo siete! Non lo siete! Non lo siete!! E non è giusto! Non è giusto!!
     – Sì, hai ragione… Non è giusto…
     – Lo capite che mi avete rubato la pace?
     Torna a sedersi vicino al vecchio e scoppia a piangere:
     – Non ce la faccio… Non sopporto tutto questo… Sto male… Io non voglio essere così… Non voglio essere così! Io ho paura di me stesso… Salvatemi… Salvatemi…!
     – Sì… sì… aspetta… Una cosa alla volta.
     E facendo leva sui braccioli il vecchio si alza, apre un cassettino, prende un pacchetto di fazzoletti:
     – Su… soffiati il naso.
     Camminando piano e un po’ curvo, raggiunge la porta che dà nella cucina; l’apre ad affacciarsi:
     – Puoi preparare una tazza di latte ben caldo? Con molto zucchero e tanto cacao. Me lo fai portare dalla bambina.
     Ritorna alla sua poltroncina:
     – Ora ragioniamo un poco. Finire in galera per far morire un vecchio che morirà comunque… mhm… lascia stare. Vediamo invece cosa posso fare per aiutarti.
     – Non lo so… Non potete aiutarmi… Nessuno mi può aiu… Sì… Forse invece voi potete…
     E la bocca del giovane si serra di nuovo, non osando ancora chiedere ciò che gli occhi imperiosi già osano.
     – Chiedi pure… Se è cosa che posso, la farò.
     – Il vostro segreto. Ditemi il vostro segreto… Voi avete di certo un segreto. Deve esserci! Ditemelo… ve ne prego… Oh, perdonatemi… Ogni pittore ha i suoi segreti e… non si deve chiedere. Perdonatemi… ma ditemelo! Io ho imparato tanto… ma non so come si fa a dipingere l’anima. Siete maestro? Insegnatemi!
     Il vecchio annuisce:
     – Dici cose molto sensate. Eh…! Ai pittori piace essere chiamati maestri, e tanti da sé stessi si definiscono tali, ma… non è maestro chi tiene per sé il proprio sapere. Sarebbe meglio se si ricorresse a un appellativo diverso. Ora calmati, te lo dirò… Ti dirò il mio segreto. Lo farò molto volentieri. Non voglio morire senza averlo trasmesso. Così meriterò almeno in parte il titolo che da un po’ di giorni mi è piovuto addosso. E ti renderò la pace che ti ho tolto.
     – Davvero…? Davvero… mi fareste vedere come fate…?
     – Basterà che te lo spieghi. In verità mi vergogno un poco a parlarne… E’ una cosa così… infantile…
     Si sente aprirsi la porta della cucina: la bambina entra e si avvicina con passi attenti, tenendo con ambe le mani un piattino con la tazza di latte.
     – Grazie, cara. Vai… e richiudi la porta. E’ brava quella piccina… Ecco, bevi questo… ti farà bene. Ssst… Lo devi bere.
     Attende fino a che il giovane non posa la tazza svuotata sul mobiletto accanto.
     – E dunque ascolta. Vedi… dopo che ho abbozzato la figura, io ci metto il cuore… capiscimi bene… ce lo dipingo… ci dipingo il cuore. Per darle la vita. Per darle la vita, sì… Lo faccio con poco colore, ben diluito con la trementina, così che non possa poi trasparire. E infatti quando dopo dipingo il vestito sopra… non si vede nulla. Ma il risultato è che quella figura è viva…!
     – Mi… mi state prendendo in giro…?
     – No figliolo, ti sto dicendo la verità. Io stesso ne restai sorpreso… non ne avevo certo previsto l’effetto… Voglio dire… Quando per la prima volta pensai di dipingere una figura umana, l’abbozzai e poi… così…! Mi venne l’impulso di metterci il cuore. Mi sembrò una cosa sciocca, da vecchio rimbambito, o diciamo rimbambinito, tanto per restituire al termine il suo senso originario. Ma per quanto sciocca… sentii che ormai avevo pensato di farla, questa cosa, e sentii che se non l’avessi fatta sarei poi rimasto col rimorso di aver privato quel personaggio del suo cuore. Si è responsabili delle proprie creature…! E allora… sai… aspettai che nessuno mi vedesse… dipinsi il cuore di nascosto… di nascosto come un bambino… e fui contento di averlo fatto. E ho continuato a farlo. I miei personaggi hanno tutti ciascuno il proprio cuore.
     – Non… riesco a… credere… che questa cosa possa…
     – Ah ma… bada che la vita non basta. Bisogna metterci anche l’anima. Questo pensai, che ci volesse pure l’anima. Ma neanch’io so come si fa a dipingerla… e credo proprio che non si possa. Come fare allora? Provai a soffiarci, sul cuore dipinto… e mi sentii peccatore e smanioso di onnipotenza. E quel soffio poi… uscito dalla mia dentiera… Lasciai stare i soffi. Però pensai: Dio volle che ogni creatura avesse un nome… e ne affidò ad Adamo il compito! Dunque questo potevo farlo anch’io. Il nome è importante… Col nome diamo riconoscimento all’esistenza degli altri. E quando di qualcuno pronunciamo il nome, non ce ne accorgiamo, ma in quel momento, in quell’unica sola parola, diciamo la storia di quel qualcuno, e chi è, e come è, e come e cosa è per noi. Non… sei d’accordo?
    
– Sì… Sì, certo… E allora?
     – E allora ecco: fatto il cuore, io sopra ci scrivo il nome che ho scelto per la mia creatura… ce lo dipingo col pennellino sottile. E a questo punto… accade il miracolo: quel personaggio diviene indipendente da me, con una volontà propria. Io non decido quasi più nulla. Capisci? La mia mano smette di obbedirmi, e dipinge guidata dal personaggio stesso, così come vuole e ciò che vuole. Pensa… c’era del blu rimasto… avevo premuto troppo il tubetto… e avrei voluto usarlo per la veste della castellana pattinatrice… l’hai presente? Ma lei la volle rossa!
     – Lei la volle rossa… –  ripete lentamente il giovane.
     – Un tipo capriccioso. Me ne ha dati di problemi…! Sui suoi pattini a rotelle i critici hanno storto i nasi… e per colpa sua! Passò in questa stanza la mia nipotina, coi pattini… e la castellana ne fu presa dalla voglia. Bisogna capirla… ai suoi tempi non esistevano. Il quadro era ormai quasi terminato… ma niente da fare: dovetti accontentarla e modificare anche se non avevo più lo spazio sufficiente. Ed è venuta un po’ corta di gambe… un po’ corta di gambe, sì… Io l’avevo fatta seduta!
     – Eh ma… quando si vede qualcuno andare sui pattini… davvero si è subito presi dalla voglia di… –  si riscuote e si alza in piedi  – Non so, non so… Sono confuso… Non so che pensare di voi… di quanto mi avete detto… E’ tutto così incredibile…!
     Anche il vecchio si alza:
     – Eppure è invece semplice come l’acqua. O almeno… incredibile non più dell’acqua. I miei personaggi hanno tutti il cuore, nascosto sotto i panni, e quindi sono vivi… E ognuno di loro ha il proprio nome dentro, e dunque ha i propri pensieri, e sentimenti, e desideri, e la propria volontà, la propria storia… Ha l’anima!
     – Io… non so… Possibile che basti dipingere un cuore e un nome?!
     – A me è bastato. E vedrai che il tuo successo soppianterà il mio: tu potrai aggiungere la perfezione pittorica che a me manca. E… i tuoi personaggi aggiungeranno l’imperfezione che a te manca.
     – L’imperfezione… Sì, credo abbiate ragione… Forse devo imparare ad essere pittore anche imperfetto…
     – Ma no, non devi. O saresti capace di rendere perfetta pure l’imperfezione. No… lascia fare a loro. Così come Dio lascia fare a noi.
     – Comunque, io non voglio… soppiantare… Ma se davvero ciò accadesse, a voi… non dispiacerà…?
     – Ne sarò contento. La folla… i critici… i giornalisti… non son cose per me oramai. Io sono vecchio, non ho che poco tempo davanti… e non ho tanta forza per dipingere… mi ci stanco. Continuerai tu anche per me. Tu che davvero sei pittore. E’ giusto così. E ritroverai la tua pace.

 

 

    La porta del soggiorno si spalanca di colpo:
     – Non funziona!!
     Il giovane entrato con irruenza butta contro una parete una grande tela, ne strappa la carta di imballaggio:
     – Ho fatto come avete detto… e che ho ottenuto? Non ho mai dipinto una figura più muta di questa! Ho anche atteso per giorni e giorni che accadesse qualcosa… Ma niente! Niente! Non funziona!
     – Calmati… Fammi vedere… Ma che splendore…! Che pittura incantevole… Che stile originale… Un talento raro…! Sei artista davvero. Mhm… effettivamente però… c’è uno strano silenzio… Non comprendo…
     – Comprendo io. Siete fuori di testa e quale sia il vostro segreto non lo sapete nemmeno voi. Oppure mi avete raccontato bubbole per non dirmelo… Ah, ora non mi sento mica tanto malvagio… il vostro scherzo è stato più malvagio della mia invidia. Io vi ho parlato con sincerità, mi sono confessato a voi, in tutta la mia vergogna… e voi forse vi siete fatto beffe di me…
     – No, no figliolo, ti prego, credimi… Se tu ti calmi, possiamo cercare di capire perché…
     – Cosa c’è da capire? –  l’interrompe l’altro furioso  – Io ho fatto tutto così come mi avete detto. Cretino che sono…! Rimbambinito appresso a voi…
     – Senti, io vorrei accertare. La pittura è ancora abbastanza fresca… Posso toglierne un po’ per guardare al di sotto…? Però il quadro forse resterà rovinato… Forse non si riuscirà poi a ripararlo senza che ne resti traccia…
     – Forse…?! E’ ovvio che ne resti traccia! Ma che mi importa… Non importa a nessuno se un mio quadro si rovina…
     – Smetti di compiangerti… e aiutami piuttosto: libera il cavalletto e sistemaci la tua tela. Io intanto… Dove ho lasciato gli occhiali? Eccoli…
     Quindi prende da un cassetto una pezzuola, la bagna di diluente e si dà a strofinare con attenzione sul petto della figura, asportandone pian piano il colore dell’abito.
     – Ci siamo… Comincio a intravedere il cuore… e mi pare che tu le abbia fatto proprio un bel cuore. Questa ragazza è viva… sì.
     Il giovane, con un vago gesto della mano, li manda al diavolo entrambi, e se ne va a borbottare contro un vetro della grande finestra.
     Il vecchio bagna un angolo pulito della pezzuola:
     – Ora vediamo se riusciamo a capire perché tace.
     E riprende a strofinare, delicatamente, fino a poter leggere il nome.
     – Benedetto ragazzo… che hai combinato?
     – Cosa… Che?
     – Tu qui ci hai messo il tuo stesso nome!
     Inebetito l’altro si avvicina:
     – Non… non me ne sono accorto…
     – Forse… intendevi rappresentare te stesso… in costei?
     – No… No, non sono io. Credo di avere sbagliato per l’abitudine a firmare…
     – E allora capisci? Questa poverina è viva ma… non sa chi sia… o chi essere.
     Il capo chino e gli occhi chiusi, il giovane annuisce più volte.
     – La creazione è… un dono –  gli dice il vecchio  – Tu non hai donato! Non abbastanza! Non ti sei fatto da parte, ecco.
     L’altro gli prende lo straccino e si adopra a cancellare la firma da quel cuore; a ogni poco passandosi sugli occhi le dita della sinistra, per toglier via le lacrime di dolorosa mortificazione.
     – Non avvilirti… Sei giovane… hai tutto il tempo per imparare a scansarti dal centro del mondo. Ora riprendi la tua tela e va’ a casa. Mettici il nome che hai dato a questa ragazza, e poi risistemale l’abito. Non fa nulla se si vedrà la riparazione… Anzi, quando questa tua creatura narrerà la propria storia, racconterà anche della rinuncia che hai fatto per amor suo; e mostrerà, a testimonianza, il suo vestito… rammendato.

 

FINE

A.R.D., marzo 2010

 

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Delitto perfetto… Divorzio all’italiana…

Delitto all’italiana
di A.R.D.

dedicato alle vittime della strada
vittime delle politiche legislative lassiste

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     Pronto… Ai tuoi ordini amore! Ma subito! Sono già di strada. Tu comincia a scendere, io saluto gli amici e volo. Si, sono al bar… Ci vediamo al cancello fra dieci minuti… Ma sì, non più di dieci minuti… a quest’ora…! Bacio.
     – Te ne vai?
     – Sì… devo andare all’ospedale. Mia moglie ha finito il turno. E vado che non voglio farla attendere là da sola… è notte ormai. A domani allora… Ci si vede!
     – Aspetta… ce la fai? Hai bevuto senza farci complimenti…
     – Ehi! Con chi credi di parlare? Ok ragazzi, io scappo.
     “Dove ho messo la macchina? Ah… eccola… Ho bevuto, ho bevuto. Mica la vedevo…! Bene bene… Dieci minuti, solo dieci minuti… Via! Si parte! Dieci minuti ancora e finalmente… Acc… la Polizia… piano… Il test lo facciamo fra mezz’ora, non adesso! Meglio se tardo qualche secondo… più sicuro di trovarla fuori del cancello.
     “Allo svolto lampeggio, lei lascia il cancello e raggiunge il bordo del marciapiede… Signor Giudice, mi sono fermato per farla salire ma… è volata…! Forse mi sono fermato tardi… forse ho perso il controllo… ho preso il marciapiede… Signor Giudice, non ne ho colpa! Ero ubriaco!
     “Ehi…! Me li leveranno mica tutti i punti? Che nnnoia…!
     “Pazienza… Me li ridaranno.
     “Amici e parenti tutti ansiosi di testimoniare quanto amassi mia moglie… Ah, i vicini poi… mi par di sentirli… ‘mai un litigio!’…
     “Divorzio… ts! La casa me la tengo io.
     “Certo che in Italia… ormai… Hitchcock è proprio superfluo. Non c’è nessun bisogno di far piani complicati e badare ai dettagli: il delitto perfetto è servito su un piatto d’argento.
     “Signor Giudice, io chiedo scusa bla bla bla… non berrò più bla bla… sono pentito bla.
     “Altro che divorzio all’italiana… eh eh…! Caro il mio Pietro Germi… col delitto d’onore qualche anno ti toccava, ma se stai bevuto… è tutto gratis!!!
     “Ci siamo. Eccola là. Sempre puntualissima.
     “Un bel lampeggio… e ora… cominciamo a sbandare…”

 

FINE


A.R.D. , maggio 2009

 

Citazioni:    Alfred Hitchcock  “Delitto perfetto” del 1954  
                
Pietro Germi  “Divorzio all’italiana” del 1962

 

 

racconti di pioggiamarea.JPG

 immagine: olio su tela a spatola, di A.R.D. – particolare –

storie medievali…

La certezza di Jacopo

di A.R.D.

(copyright Gen/2009 – tutti i diritti riservati – pubblicato in rete in alcuni siti di racconti da settembre ’09 – è consentito scaricare/stampare free solo per lettura personale: escluso ogni altro uso senza esplicita autorizzazione)

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(il racconto è intero: se appare il link “continua” cliccarvi per leggere tutto)

Una storia che si compie nell’XI secolo:
la distruzione di una triangolazione edipica, e i sotterranei sentieri di
sopravvivenza dell’Io e degli attaccamenti affettivi.

     Coi suoi passi magri e attempati il servo attraversò l’ampia stanza, oscura nella fioca luce di poche candele ma a tratti illuminata dai lampi, e si accostò al vassallo che russava, il capo ripiegato sul braccio sinistro allungato sulla tavola, nella mano un calice rovesciato sulla chiazza di vino:
     – Signore… Signore…
     Il dormiente portò sulla tavola anche il braccio destro, monco al polso guainato di nero cuoio.
     – Che vuoi…? –  rispose infine, la voce impastata di vino, di fastidio e di anni.
     – Finora cinque contadini e tre viandanti hanno domandato rifugio… e…
     – Non mi seccar l’anima… Vogliono anche mangiare? Da’ loro gli avanzi di pane… e che ci si strozzino.
     – Signore, l’ultimo giunto… mi pare sia un giovane.
     Lentamente Jacopo si sollevò e fissò il suo servo fino a vederlo giusto:
     – Spero che la tempesta in arrivo non fughi il diavolo da questo maledetto maniero, perché bisogna proprio che egli mi liberi della tua presenza… stolto servo… Ti pare o lo è?
     – Si tiene chiuso nel mantello, ma dal passo, dalla postura… mi pare.
     Jacopo si alzò, e barcollò. L’altro fece per sostenerlo ma lui, col braccio monco, lo scostò così in malo modo da farlo cadere.

     Lasciò la stanza; traversò un passaggio su cui si apriva anche la grande e fumosa cucina, scese alcuni gradini e svoltò a imboccare un breve cunicolo che fungeva da scorciatoia e che lo condusse direttamente al vestibolo, pregno della resina di una torcia a muro, del piccolo portale secondario.
     Si fermò sotto una stretta arcata laterale che immetteva in un vano a volta, in parte rischiarato dalla luce del vestibolo: accanto a un braciere posto a terra, o coricati sulla paglia, o sdraiati su qualche vecchia cassapanca, riposavano gli scampati alla pioggia che ora cadeva turbinosa.
     Lo vide subito: l’alta figura, che si indovinava magra e agile sotto il nero mantello umido, restava in piedi contro una parete, nel cappuccio che ne rendeva buio il volto.
     A Jacopo sembrò che al proprio apparire avesse avuto un impercettibile movimento. E se ne turbò.
     Con passo noncurante avanzò nella stanza. Scansò con un calcio l’intralcio del piede di un uomo sdraiato sulla paglia; piegò la bocca nello sprezzo guardando una donna coricata col figlioletto, su una delle cassapanche; col polso monco diede un colpetto al cantuccio di pane che una vecchina rosicchiava seduta su un’altra cassapanca, e rise al vederla scendere lesta, a raccattarlo; superò la figura celata lanciandole un’obliqua occhiata; si accostò a un uomo che scaldava la consunta giubba al braciere, gliela strappò di mano e la buttò sui carboni ardenti, affinché si scaldasse meglio, e scoppiò a ridere nel veder quello precipitarsi a recuperarla.
     Troncò la risata e tornò deciso all’ospite misterioso:
     – Mostrami il tuo volto.
     Il logoro mantello si scostò e una mano si alzò al cappuccio, a mandarlo indietro.
     Nella scarsa luce Jacopo scrutò il giovane che, le palpebre abbassate, sottraendo lo sguardo continuava a celarsi. Ma non sentì in sé bastante forza da chiedergli anche lo sguardo. Percorse con gli occhi ogni tratto di quel volto. Bruscamente se ne allontanò, e uscì dalla stanza. 
     Tornato nella sala, riempì di vino il calice e bevve, e ancora lo riempì e ancora bevve.
     – Signore, volete forse che…
     Agguantò il servo per i panni:
     – Ti romperò la schiena se colui riparte senza ch’io lo sappia.
     Il servo si avviò al vestibolo secondario e vi giunse nel momento in cui le guardie toglievano le spranghe dello stretto portale e, mentre la ferrea grata esterna ridiscendeva, un uomo robusto, avvolto di gelido vento, faceva il proprio ingresso. Scrollandosi tutto a disfarsi dell’acqua e del freddo, irridente l’uomo guardò il servo:
     – Dannata cornacchia… dovrò ancora veder la tua faccia.
     Col fare di chi ha confidenza col luogo, entrò nella stanza dei peregrini, buttò a terra il suo sacco, scostò da un angolo una piccola e bassa cassa sfondata trascinandola fino al braciere, si tolse la giubba e l’allargò su un lato della cassa, ad asciugare; alzò la voce:
     – Cornacchia!! Porta qualcosa! Ho fame.
     Si accosciò a scaldare le mani guardandosi intorno, e rise a veder quelle facce pallide più di fame che di freddo:
     – Porta per tutti! Che tu sia colto da sventura…!
     Si sollevò e sedette accanto a un vecchio su una panchetta addossata al muro, di fronte al braciere che rosseggiava, ravvivato a ogni poco dai lunghi freddi soffi che il vento mugghiava nelle feritoie di una parete.
     Entrò il servo con una cesta di tozzi di pane.
     Il nuovo giunto tirò giù un po’ di imprecazioni, piantò il servo con la sua cesta e uscì dalla stanza.
     Tornò con due lunghi spiedi torniti dei pezzi di arrosto: ne consegnò uno ad un altro degli ospiti facendogli segno di distribuirne, del secondo spiedo dette egli stesso qualcosa e quindi se lo portò alla panca, offrendone al vecchio.
     – Mastro ferraio… –  tentò il servo  – Che avete fatto…?
     – Va via… che mi procuri molestia. E lascia qua il pane.
     Guardò il giovane, lasciato senza nulla perché giovane:
     – Accostati tu… mangia.
     Quello si chinò a raccogliere la propria sacca sdrucita e si accostò, sfilò dallo spiedo il pezzo di carne rimasto, sedette vicino la panchetta, su un angolo della piccola cassa sfondata; e si diede a divorare quel cibo.
     Il ferraio spolpò con calma la propria parte; quando ebbe finito si alzò ad affacciarsi nel vestibolo e lanciò l’osso colpendo in testa il servo che stava aggiustandosi a dormicchiare su un treppiedi:
     – Il vino!
     Ridendo di gusto tornò dentro. Raccolse la cesta da terra, offrì il pane al vecchio e al giovane e ne tenne un tozzo per sé; quindi passò ad altri la cesta per farla girare e si rimise seduto.
     Un tuono fortissimo parve far tremare le mura e con maggior impeto gli scrosci di pioggia presero a rovesciarsi sul maniero.
     Rientrò il servo con una capiente brocca consegnandola al ferraio che bevve abbondantemente. Il vecchio estrasse dal suo misero fardelletto una ciotolina di legno e come l’ebbe colma di vino cominciò a inzupparvi il pane duro. Anche il giovane bevve, e poi la brocca passò di mano in mano, di bocca in bocca.
     Rigirando il pane nella ciotolina, il vecchio disse:
     – Ho sentito che siete il mastro ferraio…
     – In persona! Mi ero appena avviato che son dovuto rientrare. La pioggia mi vuol bene e per scatenarsi ha atteso giusto ch’io uscissi. Per non tornar domani ho voluto a ogni costo terminare entro oggi il mio lavoro qui, ma ho fatto cattivo affare: col cielo coperto, la notte ha scalzato la sera ed è giunta che era ancor giorno e io non posso più far ritorno al borgo. E poi, al buio, come riuscirei a scansare i fulmini e a passar tra una goccia e l’altra? Tutto ciò per dire che dormirò anch’io qua.
     Rosicchiò un altro po’ del suo pane e brontolò:
     – E’ più tenero di un sasso… Avevi ben fame, ragazzo, se hai di già finito il tuo. Di certo hai buoni denti. Questo avrei dovuto suonargli sulla testa… Eh…! L’ospitalità, qui al maniero… ha il passo impedito dall’avarizia.
     – Eppure non viene negato il rifugio –  osservò il vecchio  – Jacopo è signore assai spietato, fustiga la gente per una manciata di grano e l’impicca per una cesta di mele: eppure concede il rifugio senza pretendere compenso. E aggiunge la carità di un po’ di braci. Ciascuno della bontà ha il proprio concetto…!
     Il ferraio fermò lo sguardo sulle braci; mormorò:
     – Quel demonio aspetta suo figlio.
     Il vecchio si volse:
     – Che intendete? So che gli morì che era ancora infante…
     L’uomo parve scontento di aver parlato, ma al contempo bisognoso di parlare ancor più. Non fu però l’obiezione del vecchio; furono gli occhi indifferenti eppur attenti del giovane, a spingerlo a darla vinta al bisogno di confidarsi. Si allungò a tirare a sé il suo sacco e vi conservò il tozzo di pane, si guardò intorno ad assicurarsi che nessun altro udisse e, con voce fattasi grave, cominciò a narrare:
     – Accadde quindici anni fa. Già da un mese Jacopo aveva lasciato il castello e se ne stava qui, in questo vecchio maniero abbandonato da quando andò in secca il fiume che ne difendeva l’accesso: aveva in animo di fortificarlo con torri e mura di cortina, per farne una rocca. In attesa che finisse l’invernata predisponeva i lavori e intanto si occupava di alcune migliorie negli interni. In quei giorni io mangiavo e dormivo qui al maniero, per via di certe inferriate. Al signore tornavano assai gradite le facezie in cui allora mi dilettavo, e a ragion di ciò mi teneva la sera alla sua tavola, così con unica spesa aveva sia il ferraio che il buffone.
     Il crepitante bagliore di un fulmine gli fece volgere gli occhi alle feritoie; riprese:
     – Erano giorni e notti di maltempo. E poi cominciò quella tremenda notte in cui la pioggia, il vento e il freddo parvero disputarsi queste terre e ogni creatura vi fosse. Mentre nei miseri abituri la gente con le mani tratteneva sulla testa i tetti, qui al maniero si passava la serata col fuoco acceso e il vino nelle coppe. Eppure era qui, e non nei miseri abituri, che si addensava la tragedia. Jacopo si svagava a giocar di spada col figlioletto, che aveva otto anni, credo, e una spada a sua misura; egli lo istigava a colpire e per meglio istigarlo lo derideva e lo punzecchiava più con la lingua che con la spada, fra le risate dei commensali. Avvenne ciò che ormai doveva avvenire. La rabbia lievitò nel piccolo cuore e passò nei gesti, che d’un tratto persero puerilità. Di certo non voleva ferire davvero ma… d’un colpo recise la mano destra di suo padre.
     – Per l’Inferno! –  sgranò gli occhi il vecchio  – E’ dunque così che l’ha persa…
     – Jacopo urlò terrore nel veder la mano a terra, non più sua; e poi urlò dolore; e infine urlò rabbia e furore e a quel punto le sue urla si mescolarono ai tuoni e davvero parve che si scatenasse l’Inferno e che tutti i suoi dèmoni invadessero ogni luogo e ogni anima.
     L’uomo tacque, oppresso da quanto aveva rievocato, ma ancor più da quanto doveva adesso rievocare:
     – Si avventò sul figlioletto. Sua moglie si fece avanti per frapporsi e lui, sempre tenendosi il polso mozzato e sanguinante, con la forza di entrambe le braccia la colpì sul volto. Il piccolo scappò impaurito. Lui lo inseguì, e lo raggiunse proprio qui… nel vestibolo… impedito nella fuga dalla porta serrata, le mani aggrappate a una spranga. Ma… credo che la madre avesse preso su di sé la gran parte dell’ira di Jacopo… perché non lo toccò. Ancora inferocito però, ordinò alle guardie di aprire e lo scacciò, e urlò il divieto di dargli soccorso, pena la morte. E mentre, fuor di quella porta, urlava scacciandolo e maledicendolo, il piccolo gridava e correva via sotto la pioggia, nella tempesta, presto scomparendo nel buio.
     – Che… che storia… terribile… –  balbettò il vecchio.
     – Né io né altri riuscimmo a muovere un passo… a compiere un gesto… e lasciammo che quel bambino… Non per la minaccia, no! Non per la minaccia… Non so, non ho mai potuto farmi ragione di quell’inerzia.
     Lentamente scosse più volte il capo; aggiunse:
     – A volte penso che le storie debbano compiersi… e che ci si sottomette ad esse come se si obbedisse a ignoto comando. Ma forse… forse questo me lo vado dicendo per quietare il rimorso di non aver fatto nulla.
     Tacque a lungo, assorto in quel passato.
     Riprese il suo racconto:
     – Jacopo fu colto da febbre e cadde nel delirio, e sembrò vagasse per spaventosi incubi, tanto si lamentava e si torceva. Il suo delirio durò diversi giorni, durante i quali fu sepolta la moglie, uccisa dal colpo ricevuto.
     Il vecchio annuì:
     – Le donne non reggono troppo siffatti colpi. A volte ne muoiono.
     – Già… A volte ne muoiono.
     E il ferraio si sollevò, andò a raccogliere la brocca lasciata a terra fra la paglia, se l’accostò all’orecchio agitandola un poco, e sulla portata dello sciacquìo regolò l’alzata della brocca, per bere; e dovette alzarla in verticale. La posò e tornò indietro.
     Poggiandosi con le mani sulle ginocchia sedette:
     – Quando uscì dalla febbre, per lui cominciò il tormento. Fece cercare ovunque suo figlio, e lui stesso per giorni e giorni e ancora giorni percorse ogni possibile luogo. Ma del piccolo non si trovò traccia. Rientrato dalla vana ricerca, si gettò sulla pietra sotto cui riposa la sua sventurata moglie, e là rimase fino all’alba. Da allora, anche se non manca di recarsi al castello ad ogni necessità, non è più tornato a viverci: è rimasto qui, in questo vecchio maniero… lasciato così com’era. E da allora, pur continuando ad essere il vassallo spietato e nefando che è sempre stato, non nega ospizio a nessun viandante, e di notte non mancano mai le torce per segnalare il maniero nel buio. Ed esse vengono triplicate nelle notti di cattivo tempo.
     Restò in silenzio, quindi ripeté:
     – Aspetta che torni suo figlio.
     Fissò il giovane:
     – E’ venuto ad osservarti… Vero?
     Il giovane annuì. Anche il ferraio stesso annuì e spiegò:
     – Il suo servo ha l’ordine di avvisarlo se fra quanti qui si rifugiano c’è qualcheduno in età da esser suo figlio, e lui viene a studiarselo. E’ accaduto pure che taluno abbia cercato di passar per quel figlio… e Jacopo non ha avuto pietà nel punir l’incauto.

     Ancora un poco sostò gli occhi sul giovane; li distolse; concluse:
     – E ogni sera se ne sta solo a vegliare e bere fino a tardi… Non trova pace. Nelle notti tempestose poi… quell’anima dannata si ubriaca maledettamente.
     – Eh…! Per il ricordo… –  sospirò il vecchio  – Per il rimorso…!
     – Sì, per questi, ma… più ancora per la certezza: egli è certo che suo figlio debba far ritorno, ed è certo che debba tornare proprio in una notte simile a quella. Se nutrisse solo speranza… ciò l’aiuterebbe; ma la certezza, da quindici anni trascinata di notte in notte, rinviata di tempesta in tempesta, lo sta consumando.
     Attese che un lungo e pauroso tuono terminasse; mormorò:
     – E questa notte sta sempre più somigliando a quella.
     Restarono muti ad ascoltare la lotta tra la potenza del vento e la resistenza del maniero.
     Il vecchio rabbrividì, alzò gli occhi stanchi alle feritoie e ai loro soffi umidi e freddi; pensoso disse piano:
     – La speranza tiene conto dei fatti… La certezza ne fa a meno.
     Guardò il ferraio:
     – Ma voi… credete possibile che il suo figliolo sia ancor vivo?
     Il ferraio alzò le spalle:
     – Un bambino allevato nelle cure, poi buttato senza adeguati panni nel freddo e nella tempesta, nel buio, senza cibo, angosciato per sua madre, spaventato dall’ira di suo padre e ancor più da ciò che egli stesso ha fatto… come potrebbe essere sopravvissuto?

     – Ma… si sarebbe dovuto trovarne il corpicino…
     – Quello sarà stato divorato da qualche bestia affamata – e si alzò in piedi.
     Sbadigliando si sgranchì:
     – E’ ora ch’io dorma. Non è poco il lavoro che domani mi attende al borgo e sono stanco. E la tua loquacità mi ha sfinito le orecchie, ragazzo.
     Raccolse il sacco, prese la giubba, fece un cenno di commiato con la mano e andò ad accostarsi alla vecchina addormentata sulla cassapanca, e la scosse un poco:
     – Alzatevi, buona donna. Fate sistemar prima me… così io starò al caldo e voi proverete il piacere di starmi sopra.
     La vecchina non mostrò di gradire e non si mosse.
     L’uomo allora la trasse in piedi; incurante delle sue proteste sollevò il coperchio e buttò dentro il sacco, smosse i vecchi panni là dimenticati e facendo sussultare tutti sferrò un calcio contro il legno sconnesso, per far sgombrare un topo; entrò e si mise seduto, si sistemò la giubba addosso e sdraiandosi richiuse il coperchio su di sé.
     Borbottando e avvoltolandosi nei suoi stracci, la vecchina si riaccomodò, sopra.
     Soli a vegliare rimanevano il vecchio e il giovane. Questi disse piano:
     – Se fosse ancor vivo… davvero potrei essere io.
     Stupito il vecchio lo fissò:
     – Che stai dicendo…?
     Il giovane inclinò il viso di lato, lo sguardo alle braci ormai deboli:
     – Non ho cognizione di chi mi ha messo al mondo e non ho memoria dei miei anni più lontani. Non ho un mestiere, faccio quel che capita, mi nutro di quel che riesco a cacciare di frodo e a volte rubo ciò di cui ho bisogno. E’ vero che come me ce ne son tanti, ma…
     Tornò a volgersi al vecchio:
     – Non mi dispiacerebbe starmene qui al sicuro.
     – Figliolo, figliolo… non lasciarti tentare… Rientra in te! Hai pur sentito che il signore non è uomo da farsi ingannare… né da perdonare chi cerchi di ingannarlo.
     – Io non voglio ingannare alcuno.
     – Che intendi fare dunque?
     – Niente… Niente più di quanto lui vorrà ch’io faccia. E’ venuto a guardarmi… Forse tornerà a guardarmi ancora. Se egli nulla dirà, domani andrò via e riprenderò la mia strada; se mi dirà di restare… resterò.
     – Ma tu… tu fai assegnamento sul suo bisogno di credere di aver ritrovato il figlio. Stai pensando a qualcosa di… disonesto. Via, via… Non si deve profittare di ciò che per altri è tragedia.
     – La sorte mi ha condotto qui… qui dove si attende qualcuno come me… E se davvero fossi io quello?
     – Ma… se tu non lo fossi… saresti poi nella menzogna…
     – Come invece sarei nella verità… se io lo fossi.
     Il vecchio restò muto. Infine mormorò:
     – Sì, le storie devono compiersi…
     Sospirò profondamente e aggiunse:
     – E forse, proprio per compiersi, devono ripetersi. E noi non dobbiamo che obbedire ad esse. Temo per te… ma ora ho sonno, e forse ciò è per me il segnale di tacere e di non cercar più di dissuaderti. Il mastro ferraio ha terminato la sua parte e forse anch’io la mia. E ora mi si chiede di dormire.
     Raccattò il fardelletto e andò a cercarsi un posto sulla paglia; e si lasciò nel sonno.
     Il giovane di nuovo girò il volto a guardar le braci quasi spente, e vi indugiò lungo tempo. Infine si alzò e si spostò a sedersi sulla panchetta, sistemò al proprio fianco la sacca, tirò a sé i piedi incrociando le gambe, sollevò il cappuccio e si aggiustò meglio nel mantello, quindi si addossò al muro poggiandovi il capo. Restò così, immoto, e nessuno avrebbe potuto dire in qual momento si fosse addormentato. Né se si fosse addormentato.
     La notte diveniva sempre più paurosa e i lampi penetravano la loro fredda luce nelle feritoie, baluginando sui corpi rannicchiati nell’inquieto sonno e ogni tanto scossi dai colpi di tosse. Poi tornava l’oscurità.
     In quell’oscurità Jacopo avanzò. A un bagliore distinse l’ospite cercato, gli si accostò e attese un segno che fosse desto; non ricevendone sedette, sull’angolo della cassa, e ancora attese. Infine si sporse in avanti e alzò deciso la mano a scostargli il cappuccio. Aperti, gli occhi del giovane lo guardavano.
     Jacopo lentamente ritirò la mano. Si sollevò:
     – Seguimi –  e con passo rapido lasciò la stanza.
     L’altro, dopo breve esitazione, mise giù i piedi; prendendo la sacca si alzò e uscì nel vestibolo. Non scorgeva però il vassallo; vide le due guardie, sul sedile di pietra in una rientranza del vano, e vide il servo, addormentato sul suo treppiedi, le spalle alla parete e la bocca aperta in beato abbandono, forse consolato da un sogno.
     Cercando il vassallo, il giovane si addentrò di qualche passo e si fermò. Alzò gli occhi alla pesante grata interna, che era sollevata, sospesa su di lui. Oltre, alla sua sinistra, l’uscio ferrato aperto sul cunicolo; di fronte, lo svolto del muro; alla sua destra, nel buio dell’angolo tra la parete e l’arcata di scorrimento della grata, i suoi occhi avvezzi alla notte scovarono Jacopo che rattratto in quell’ombra lo osservava. Rimase dunque fermo, in attesa.
     – Vai avanti tu –  gli disse allora Jacopo, senza spostarsi.
     – Dove… di qua? –  chiese l’altro indicando l’uscio ferrato.
     – Dove vuoi.
    Il giovane si strinse nelle spalle, si girò e deciso, alzando il piede sullo scalino della soglia, entrò nel cunicolo.
     Jacopo uscì dal suo angolo e lo seguì. Lo vide salire poi con passo sicuro i gradini; lo vide rallentare nel percorrere lo stretto e scuro vano di passaggio, volgendo il capo verso la cucina, proseguire fino al varco che immetteva nella sala, e là fermarsi.

     – Entra… –  gli disse.
     La sala era adesso illuminata da numerose candele e torce, e intepidita dai grossi ciocchi ardenti sul grande focolare centrale, sotto l’enorme cappa da cui, a tratti, tornava il fumo respinto dalle raffiche di vento.
     L’uomo scrutava attento gli sguardi che il giovane lanciava intorno; gli domandò:
     – Tu osservi questa stanza… Puoi dirmi cosa ne stai pensando?
     – Che… mi pare… piccola.
     – Piccola…?! A te pare piccola? Questo è tutto ciò che sai dirne?
     Il giovane alzò le spalle, e abbassò le ciglia.
     – Togli il mantello. Va ad accostarti al fuoco. Scaldati…
     Accostandosi al fuoco, il giovane si tolse il mantello, lo posò insieme alla sacca sul bordo dell’alta base del focolare; di cui prese a fare il giro, lentamente, guardando le fiamme.
     Jacopo ne osservava la persona magra eppur forte, i miseri panni logori, le scarpe allo stremo.
     – Piccola… –  brontolò piano.
     L’altro si volse e lui deviò lo sguardo; andò a sedersi al centro del lato lungo della lunga tavola e con la mano accennò al posto di fronte.
     Avvicinatosi e scavalcata la stretta panca anche il giovane sedette, e guardò il piatto di cacciagione, tra di loro, accanto a una brocca e a due calici, ma subito se ne distolse posando gli occhi sul suo ospite.
     Jacopo, che aveva colto quella fame, ebbe un movimento del braccio sinistro che però trattenne, e alzò invece il destro a spingere col polso monco il vassoio; e, sempre con quel polso, aggiunse un gesto di invito:
     – Mangiane pure.
     Il giovane, gli occhi tenuti sul cibo, ne prese un pezzo e cominciò a mangiarlo.
     Jacopo ritirò il braccio:
     – Dimmi chi sei… dove vivi…
     – Sono quello che vedete, niente di più. E vivo ovunque mi trovi a passare.
     – Un vagabondo… Qual è il tuo nome?
     – Faina.
     – E che nome è mai codesto?
     L’altro non rispose e continuò a masticare.
     – Rispondi! Che significa tal nome di bestia?
     Il giovane ingoiò, lasciò la carne sul piano della tavola, abbassò le braccia poggiando le mani sulle cosce e guardò il vassallo:
     – Voi… siete il signore di queste terre…
     L’uomo ebbe una smorfia d’impazienza:
     – Hai la mia parola che non sarai punito per quanto dirai. Dunque?
     – Ebbene… Quando ancora non ero abbastanza abile da assicurarmi da mangiare con qualche lavoro o con la… caccia, me ne procuravo… entrando di notte nei pollai, per le uova o per portarmi via una gallina. Una sera tornai in un pollaio in cui già più volte mi ero servito, svuotai molte uova e commisi l’errore di addormentarmi. Ad ogni percossa fui chiamato “faina”. Da allora, se mi si domanda il nome, io rispondo “Faina”. Non saprei dirne un altro.
     – Sarai pur stato battezzato…!
     – E’ verosimile ch’io lo sia stato.
     – Non hai dunque congiunti?
     – Congiunti? La fame! Anche il freddo. La paura…
     – Mhm. Quanti sono i tuoi anni?
     – E’ cosa che mi resta ignota.
     – E… nei tuoi ricordi più lontani… di quando eri infante…?
     – Pollai.
     Jacopo si corrugò nel disappunto, ma trattenne la stizza e insinuò:
     – Forse un fatto grave ha turbato la tua memoria…
     – O forse non ho avuto granché di cui far memoria. Posso terminare di mangiare?
     Jacopo annuì scontento e attese. Quindi alzò di nuovo il braccio destro e col polso monco spinse la base della brocca:
     – Bevi… Bevi pure.
     E il giovane, gli occhi mantenuti sulla brocca e sul calice, si versò il vino e bevve.
     Allora Jacopo prese a massaggiarsi il moncherino:
     – Con questo tempo… mi duole.
     Attese un commento che non arrivò. Chiese:
     – Non mi domandi perché son privo della mano?
     – Lo so.
     – Lo sai…?
     – Mi è stato raccontato.
     – Ah… ho capito. La lingua del ferraio. Deve esser rimasto a dormire qui…
     Abbassò il braccio. Aspettò il tuono annunciato da un lampo e sullo svanire del rombo ancora chiese:
     – Ebbene? Che ne pensi di quella storia?
     – Niente –  e scavalcando il sedile si alzò in piedi  – Signore, vi ringrazio delle vostre cortesie… Ora concedete ch’io vada a dormire.
     – Il mio cospetto ti è dunque così poco gradito? In cosa ho mancato?
     – Voi non avete mancato… ma… io… Io sono stanco e domani mi attende la mia strada.
     – E… dove ti conduce?
     – Non ho meta. Cammino.
     – Non hai meta… – ripeté pensoso Jacopo.
     Quindi si riscosse e disse brusco:
     – Resta al maniero. Stai ancora dei giorni qui. Io son solo… non mi dispiace aver compagnia.
     – Accetto il vostro invito. E ve ne ringrazio. Vi auguro la buona notte.
     Il giovane andò al focolare a riprendere le sue cose e si avviò all’uscita.

     – No, non tornare là… Va sopra, per quella scala. Vedrai due porte alla tua sinistra. Più in fondo a destra ne troverai una terza: aprila… sistemati in quella stanza. Prendi con te una candela.
     Fermo al proprio posto, Jacopo lo seguì con gli occhi avviarsi a salir la scala. Riempì il calice e ancora a lungo si trattenne alla tavola. Infine esausto, di vino, di certezza e di inquietudine, si alzò e vacillando raggiunse a sua volta la scala e la salì tenendosi alle pietre della parete.
     Giunto nello stretto corridoio, in cui una piccola torcia a muro gettava ombre, si fermò alla prima porta. Gli occhi gli andarono alla terza in fondo. Allora piano la raggiunse e vi accostò l’orecchio. E udì un respiro leggero, di sonno infantile. Si scostò. Cautamente tornò a poggiare l’orecchio, trattenendo il proprio respiro: lo udì ancora. Dovette di nuovo scostarsi, non riuscendo a sostenere uno strano malessere a cui non era avvezzo e che non sapeva come governare, non sapendo che fosse felicità. E intanto un curioso pensiero gli tremò nell’anima: pensò che non si sarebbe meravigliato se al mattino da quella porta ne fosse uscito il suo piccolo scacciato.
     Scrollò il capo denso dei fumi dell’ubriachezza e tornò indietro, ma passando davanti alla seconda porta non resistette: vi pose l’orecchio e, come sempre accadeva, udì un frusciare di vesti. Abbassò la testa contro il legno e alzò le braccia, e stringendo nel pugno il polso monco vi battè e vi battè e ancora battè. Si volse sempre tenendosi addossato a quella porta, si lasciò scivolare giù fino a sedersi a terra:
     – Dio…! Quant’ho bevuto…
     Cominciò a piangere il suo pianto che non gli scorreva dagli occhi, ma gli singhiozzava arido nella gola e nel petto, dolorosamente. Nell’angusto corridoio, intriso dei suoi rimorsi, la sofferenza diveniva ogni volta più spaventosa e ormai Jacopo sentiva paura a permanervi, lui che non temeva nulla; però al mondo non aveva proprio niente e nessuno che lo conoscesse più di quel budello di pietra. E rimase là, sul freddo pavimento, col suo duro pianto.
     Sentì schiudersi la terza porta e si volse, gli occhi già colmi del miracolo. Nello spiraglio non vide il suo piccolo, bensì Faina.
     La vergogna del proprio pianto fece traboccare l’amara delusione per il negato miracolo:
     – Impostore!!
     Faina rientrò, subito uscendo con la sacca a tracolla e il mantello su un braccio; richiuse e con passo fermo percorse il corridoio e scavalcò le gambe di Jacopo che, gli occhi irosi, gli gridava contro:
     – Tu vuoi passar per mio figlio!! Tu vuoi prenderti il suo nome… Ladro! Faina! Faina! Torna a rubar galline!
     Faina già discendeva la scala avvolgendosi nel mantello.
     – Hai creduto ch’io fossi reso stolto dalla pena… Impostore!!
     Ormai solo, Jacopo si sollevò a rincorrerlo:
     – Ma io ti faccio mettere ai ferri…
     Non trovandolo già più nella sala, si sentì mordere nelle carni. Riprese l’inseguimento; non riusciva però a far presto, e procedeva faticosamente fendendo lo spazio: davanti a lui, sempre più addensandosi, si innalzava l’angoscia dell’irreversibilità, della perdita irreparabile, definitiva.
     Da quindici anni Jacopo resisteva al suo assedio opponendovi le invalicabili mura della propria certezza; ma essa ne aveva atteso le crepe, e ora si disponeva all’assalto.
     Giunse stremato nel vestibolo: le guardie staccavano le mani di Faina da una spranga della porta. E non erano piccole quelle mani.
     Gli si avvicinò alle spalle come se volesse afferrarlo, ma non lo fece:
     – Credi di cavartela? –  urlò  – Io ti faccio mettere ai ferri!! Tu…
     – Io niente –  si volse Faina  – Voi mi avete invitato a restare.
     Era la verità, e il vassallo se ne sentì beffato, ma fin dentro l’anima: niente, davvero non aveva fatto niente per restare, come se restare o andarsene fosse lo stesso. Non aveva conservato niente di sé; e niente per lui, niente a cui appigliarsi, a cui riannodarsi. Nemmeno il risentimento. Ormai era Faina.
     E allora quell’angoscia lo invase vittoriosa:
     – Disserrate! Apritegli! E che vada! Via!! Vattene!!!
     Le guardie aprirono e il vento gelò il vestibolo. Fermo davanti all’angusta apertura, Faina si tirò il cappuccio sul capo e attese che la grata esterna venisse sollevata; senza voltarsi si inoltrò nello stretto andito, quindi entrò nella pioggia.
     Jacopo a propria volta imboccò quell’uscita, fermandosi nello spessore del muro. Guardava le spalle di Faina, già bagnate, ancora visibili per la luce delle torce esterne. Ma più oltre c’era il buio.
     Si precipitò fuori, lo raggiunse, e lo afferrò:
     – No… No… Con questo tempo…
     – Proprio con questo tempo. Lasciatemi.
     Quell’unica mano di Jacopo gli adunghiava fortemente un braccio:
     – Nel buio… Nella tempesta…
     – Lasciatemi! –  si adirò Faina alzando la voce nel chiasso del vento e dei tuoni.
     – Ti perderai … e ti ammalerai… e…
     – E che i fulmini inceneriscano la mia carne e la pioggia marcisca le mie ossa! –  e si svincolò.
     – Cosa… Cosa hai detto…?! –  balbettò Jacopo.
     Movendosi all’indietro nella terra fangosa, Faina si allontanava addentrandosi nel buio e gridò:
     – Che i denti dei lupi lacerino il mio corpo e gli artigli dei dèmoni si contendano la mia anima!
     – Cosa hai detto…
     – E che io cammini in eterno senza mai trovar meta!
     Le braccia tese in avanti, Jacopo di nuovo lo raggiunse:
     – Queste… furono le mie parole…
     – Che dite…? E lasciatemi!
     – Tu le hai ricordate…
     Nel turbinare del vento e della pioggia, ormai fradici, si fissavano alla luce dei lampi.
     – Voi siete ubriaco… Vaneggiate. Lasciatemi.
     – Furono le mie parole… le maledizioni con cui ti scacciai… Tu le hai ricordate…
     – No… Io… ho detto così… Son parole assai comuni.
     – Furono le mie… quelle che ti dissi… E tu le hai ricordate…!
     Gli occhi di Faina avevano perso ogni scaltrezza e ogni indifferenza, e le sue labbra ebbero un tremito, senz’altro per il freddo, ma puerile:
     – Vi ingannate. Io… non son quello… no…
     – Sì… tu lo sei… tu lo sei… E benedette siano le mie maledizioni… che s’io non le avessi pronunciate ora non ti avrei ritrovato.
     Ancora la bocca del giovane tremò e tutto il suo volto parve impiccolire:
     – No… Non sono io, no… Non sono stato io a… No!!
     – Sì, sei stato tu… e io ti ho privato di tua madre. Ma sono mie tutte le colpe. Vieni… devi asciugarti. Rientriamo… Ancora un poco e la tempesta si quieterà.

FINE

A.R.D., dicembre 2008

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omosessualità in famiglia

Omosessualità. Necessita farne tragedia?
racconto breve di A.R.D.
dedicato alle vittime di omofobia 
(dep.03/04/08 – tutti i diritti riservati – pubblicato in rete da maggio ’08)
(è consentito scaricare/stampare il racconto solo a scopo di personale lettura)

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(il racconto è intero: se appare il link “continua” cliccarvi per leggere tutto)

(Avvertenza: le regole grammaticali, in particolare per accenti e apostrofi,
non sono sempre rispettate, a favore di una più agevole lettura)

 

     Le due tazzine fumanti sul vassoietto, la signora apre la porta:

     – Marce’, il caf…

     E il vassoietto, inox, non la finisce più di vibrare sul pavimento fra i cocci delle tazzine.

     Marcello e Romoletto, staccatisi un po’ troppo tardi dall’abbraccio, fissano il loro caffè sul pavimento: sta là come sul luogo del delitto resta il lago di sangue.

     – Ch’è successo?

     La donna si gira al marito accorso, giornale in mano e occhiali calati fino all’estremo del naso, e risponde afona:

     – Se stavano a bacia’… Se stavano a bacia’… L’ho visti io… Co’ st’occhi l’ho visti… Se baciavano come du’ innammorati…

     – Piantala… – dice lui – Ce lo sai che se vonno bene come du’ fratelli. Se so’ dati un bacetto e tu stai a…

     – No… che bacetto…? Come du’ innammorati te sto a di’! L’ho visti co’ st’occhi…

     – Sta bona… Ora metto tutto a posto. In questi casi… bisogna parla’. Mo’ ce parlo… e sistemo tutto. So’ giovani… ponno sbaglia’… Va de llà… Qua ce penso io.

     – Nun li mena’, sa’…!

     – Ma va de llà! Du’ pezzi de marcantonio… li meno…

     – Vado a rifa’ il caffè –  e raccoglie il vassoietto  – Coll’altra macchinetta… pure pe’ noialtri.

     L’uomo scavalca cocci e caffè e con passo grave avanza nella stanzetta di Marcello; mentre dalla cucina giungono i rintocchi del cucchiaino contro il barattolo, piega il giornale e lo posa sulla scrivania, toglie gli occhiali e li posa sul giornale, ruota la sedia del computer, vi siede e fissa i due giovani che, seduti sul lettino, gli occhi bassi, si lanciano obliqui sguardi di incertezza.

     Torna la signora completa di mocho, secchio, scopa e paletta. Pulisce il pavimento del caffè e poi spinge i cocci nella paletta manovrando la scopa di punta. Se ne va portando via tutto.

     – Ndo’ volete arriva’? –  chiede l’uomo.

     I due giovani alzano a lui gli occhi, le fronti corrugate in un lungo silenzio.

     Di nuovo torna la signora per la seconda passata di mocho. Di nuovo si allontana. L’uomo riprende:

     – Vojo di’… che intenzioni ci avete?

     – Serie –  risponde Romoletto.

     L’uomo salta in piedi:

     – Nun me pija’ in giro tu, sa’? Io te strozzo! A tutti e due. Siete grandi e grossi ma er modo de strozzavve io lo trovo…!

     – Vitto’… –  giunge cantilenante dalla cucina il richiamo della moglie.

     E il signor Vittorio si raschia la gola, si rimette seduto, resta corrucciato a pensare. Ma ecco che la fronte gli si spiana in una bella speranza e dice:

     – Be’… è ’na cosa capitata oggi… così… Nun ve siete nemmanco accorti e ve siete aritrovati che…

     – Stamo insieme da ’n anno e mezzo –  informa Marcello.

     L’uomo si sente mancare.

     – Papà… papà…! –  lo chiama Marcello.

     – Sor Vitto’… A’ sor Vitto’… –  lo sorregge Romoletto.

     – E mo’ che è? –  chiede la signora giunta con quattro tazzine.

     Romoletto ne prende una e la porta alle labbra del suoc… del signor Vittorio.

     Questi lo fissa con le sopracciglia sottosopra, e per la stizza si ripiglia subito: con una mano gli toglie la tazzina e con l’altra lo scansa.

     I giovanotti si rimettono seduti sul lettino, la signora offre loro il caffè, poggia il vassoietto sulla scrivania e, attenta a mantener diritta la propria tazzina, volta il cuscinetto dello sgabello, per non sciuparne il già sciupato ricamo; e vi siede compita.

     Bevono il caffè tutti e quattro a piccoli sorsi, con lunghi intervalli, come ad allungare il tempo.

     La donna spia premurosa i gesti di ognuno e, quando è certa che tutti hanno finito di bere, si alza e impeccabile prende il vassoietto e fa il breve giro a recuperare le tazzine. Guarda il marito:

     – Allora? Hai sistemato tutto?

     – E come no? Tutto a posto.

     – Ah, meno male –  e riaggiusta il cuscinetto col ricamo in su  – Allora io vado a ritirare i panni. Così poi apparecchio. Resti a cena, Romole’?

     – Ma quanto sei gnoccolona…! –  le dice freddo il marito  – Secondo te basta ’na parlata?

     – Io so’ gnoccolona…?! E nun l’avevi detto te che bastava ’na parlata?

     – E non ho finito ancora. Oh.

     La signora poggia di nuovo il vassoietto sulla scrivania, volta di nuovo il cuscinetto, a ricamo in giù, si rimette seduta, braccia tese e mani sulle ginocchia.

     L’uomo ne distoglie gli occhi ruotando sulla sedia girevole fino a poggiare le braccia conserte sulla scrivania, la testa china. La solleva trovandosi di fronte il monitor spento, e resta a fissarlo. Ruota di nuovo:

     – Ma voialtri… ve rendete conto che state a fa ’na cosa sbajata? ’Na cosa che è contro… come se dice…

     – Contro natura –  sospira la moglie.

     – A’ pà…! E queste so’ idee da medioevo…!

     – Ao’…! Che medioevo? Er monno è sempre uguale. E questa è proprio ’na cosa storta. Io… non ve voglio fa’ rimprovero… butta’ fori de casa… No. Ma voi dovete collabora’… Ce dovete da mette tanta bona volontà e supera’ la crisi.

     – Che crisi?-  chiede Romoletto.
     – Ce sta a pija’ colle bone –  spiega Marcello.

     Il signor Vittorio si spazientisce:

     – Ma benedetti figli…! Nun è mejo se state co’ ’na donna? Che ce trovate a… così tra de voi? Eh? Che ce trovate?

    – Ma davero…! –  concorda la signora  – N’è mejo co’ le donne? A me… gli òmini… nun ce trovo proprio niente de bello.

     – Eccola là… –  si gira a fissarla il marito  – E perché nun te ne sei stata co’ ’na donna tu? Invece da rompe l’anima a me…

     – Io…!! E che me prendi pe’ quelle là? Quelle che se baceno tra de loro e…

     – Te prendo pe’ la madre de questo ber campione.

     – E mica l’ho fatto cor portiere! –  alza le spalle lei.

     Romoletto si schiarisce la voce; è in piedi:

     – Io… allora… vado…

     – Te ne vai…?! –  stupisce la signora  – Come sarebbe che te ne vai? E non stai a cena?! Ho fatto il polpettone coi carciofi alla giudìa. A te… te piaceno… Siedi, siedi…

     – A proposito der porpettone… –  annuisce il signor Vittorio guardandola  – Mo’ ho capito perché tu’ fratello… tutti quei discorsi sui gay… l’altra sera…

     – Tu la devi da smette de chiamallo polpettone –  si risente lei.

     – Io posso pure nun chiamaccelo, ma lui polpettone ce resta. E lasciamo perde lui… Ma me dici che figura ce famo quando lo sanno tutti quanti… de ’sti due?

     – E che ce lo devono pe’ forza da sape’ ? Voi… non ce potete mette attenzione… così che nun se n’accorge nessuno?

     – A’ ma’… e mica è ’na vergogna!

     Il signor Vittorio annuisce di nuovo:

     – Cesi’… guarda come te lo dico: questi, poco alla volta, metteranno li manifesti pe’ tutta Roma.

     La signora se ne sta un po’ mogia. Quindi dice:

     – A me non me ’mporta de nessuno… Me ce rode solo per gallinaccio affianco… la sora Agnesina. ’Sta soddisfazione proprio non gliela vorrei da’.

     Alza le spalle:

     – E pazienza. Io mo’ sai che faccio? Dico tutte le sere ’na preghiera. Po’ darsi che la Madonna ve fa guari’.

     – A’ ma’…!

     – Non è ’na malattia, sora Cesira –  interviene Romoletto  – Sì… è vero che ce stanno quelli che ’o fanno pe’ quarche problema… e ce se confònnono… Ma noi nun ce l’avemo ’sti problemi… Noi se sentìmo bene.

     – Loro se sentono bene –  annuisce ancora il signor Vittorio  – Io me sento strippa’ la panza e loro se sentono bene.

     – Mbe’ ? –  dice la donna  – E devono da sta’ male? Porelli…! Però, pure si non è ’na malattia, io la preghiera la dico lo stesso. Se guarite… bene. E se non guarite… vor di’ che Dio ve vole così. E se Dio ve vole così… po’ pure fa veni’ ’n colpo alla sora Agnesina… se trova da di’ qualcosa.

     – Ecco, brava –  approva il marito  – Ma spiègate bene quando parli colla Madonna e co’ Dio: er colpo deve da esse pe’ a sora Agnesina… e no pe’ me.

     – Ma che stai a di’? Mica un colpo è ’na cosa che se po’ chiede addentro a ’na preghiera! Se Dio vole… se ce pensa da solo… Ma nun se po’ chiede. Ce deve pensa’ da solo. Pure ’sti du’ figlietti so’ anime battezzate… e li deve da protegge. Be’… io vado a ritirare i panni… –  si alza  – …così poi apparecchio. E tu perché non te finisci quelle cose…?

     – Quali cose? –  stupisce il signor Vittorio.

     La signora rimette a posto il cuscinetto, a ricamo in su, prende giornale e occhiali e glieli mette in mano, prende il vassoietto e col mento gli fa segno di uscire dalla stanzetta:

     – Devi da fini’ quelle cose che stavi facenno prima.

     Rientrando in cucina bisbiglia:

     – Pare brutto a resta’ de llà… Vorranno sta’ un pochetto soli…

     – Ah, non voglio certo regge er moccolo –  ribatte l’uomo mettendosi seduto al tavolo.

     – E che fai a fa’ ’sto tono? Nun te lo ricordi quanno a noi ce piaceva de resta’ un pochetto soli?

     – A’ Cesi’… e nun è la stessa cosa…!

     – E che ne sai? Po’ esse de sì. Boh…

     E va a ritirare i panni. Tornata in cucina accende sotto il polpettone per scaldarlo; apre il cassetto, prende la tovaglia e la dispiega:

     – Ma dimme ’n po’… Come… Vojo di’… Uno dei due deve fa la donna… no? Secondo te chi…

     – Nun te ’mpiccia’! –  scatta lui  – Questi so’ fatti loro. Che ne so… Forse nun la deve da fa’ nessuno… Boh…! Ma comunque… Marcellino… nun po’ esse.

     Stende con mano distratta qualche pieghina della tovaglia:

     – ’N anno e mezzo… ’Sta storia dura da ’n anno e mezzo. E so’ grandi ormai… fanno pe’ davero.

     La signora Cesira mette i tovaglioli e le posate:

     Be’… sai che c’è? Forse ce semo risparmiati l’impiccio de ’na nora rognosa. Mica le ragazze so’ più quelle de ’na volta…! Tutte ’ste sgallettate che se vedono in giro… Romoletto invece… è proprio un bravo ragazzo.

     – E’ un bravo ragazzo sì! –  e il signor Vittorio si allunga ad aprire lo stipetto basso a prendere la bottiglia di vino cominciata a pranzo  – E poi noi… ormai… già glie volemo bene. So’ du’ anni che vie’ pe’ casa…

     La signora Cesira mette i bicchieri:

     – E pure la famiglia è brava gente. A proposito… chissà come la prenderanno.

     – E come la devono da prende? –  si acciglia un poco il signor Vittorio versandosi un dito di vino  – Pure Marcellino nostro è un bravo ragazzo…! E come famija… semo mejo de loro.

     E beve il dito di vino.

     La moglie gira il polpettone per farlo scaldare anche dall’altra parte:

     – Sai che sto a pensa’…? Se proprio deve da esse… se ponno sistema’ qua. Nella stanza da pranzo nun ce se mettemo mai… Famo porta’ via tutto che io so pure stufa de puli’ le vetrinette. Ce se ponno mette loro. E poi… la casa è nostra, e un domani… a morte nostra… li lasciamo sistemati.

     – C’è pure la cantinola… –  riflette lui  – Ce sta quella roba vecchia… se po’ butta’… Romoletto ce se po’ sistema’ tutti l’attrezzi.

     La donna si lascia i fornelli alle spalle e lo guarda:

     – Embe’! Questo mo’… è proprio un mistero –  si mette i pugni sui fianchi, il mestolo in un pugno  – Dimme ’n po’… Come se spiega che se c’è da stura’ un lavandino… o da sistema’ ’na presa… aggiusta’ ’na manija… pitta’ li muri… a Romoletto glie piace da fallo e lo sa fa’… e pure Marcello ce riesce… e tu invece non sai nemmanco pianta’ ’n chiodo?

                                          

F I N E

marzo 2008, A.R.D.

 

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